L’universo è buio

“C’è una cosa strana e sconcertante che riguarda il rapporto dell’uomo con il cosmo e che non viene mai detta, ed è il fatto che l’universo in realtà è buio non c’è nessuna luce, le stelle non brillano, il sole non è luminoso, la luna non riflette i suoi raggi, tutto è nero, spaventosamente nero. Perché? Perché la luce esiste solo se ci sono degli occhi e un cervello capaci di trasformare delle onde elettromagnetiche in segnali luminosi coma fa appunto il cervello umano. Le onde elettromagnetiche di per sè non generano luce, tutto è buio nel cosmo e silenzioso, perché senza atmosfera non ci sono suoni. Si potrebbe dire che il cosmo si accende solo quando appare l’uomo che sa non soltanto vedere queste luci, ma interpretarle.”

Super Quark di Piero Angela

Quando scienza e arte si incontrano e diventano un’unica cosa quello che nasce assume le sembianze di qualcosa di divino. Piero Angela in questo poetico stralcio di un servizio di Super Quark ci ha fatto intravedere questa dimensione divina attraverso una sintetica, quanto efficace descrizione del rapporto dell’uomo con il cosmo, del buio di cui siamo circondati, delle onde elettromagnetiche e del cervello che le traduce, ma soprattutto ci ha parlato della capacità dell’essere umano di dare vita alla luce e quindi al buio grazie alla funzione interpretativa.

Come per ogni poesia è possibile tradurre questa citazione in un linguaggio più descrittivo che ci aiuti a riflettere circa l’importanza del rapporto tra l’uomo e il cosmo buio e silenzioso e di come riconnettersi con questo rapporto originario renda l’uomo autentico e, dunque sempre più vicino a sé stesso.

“C’è una cosa strana e sconcertante che riguarda il rapporto dell’uomo con il cosmo e che non viene mai detta, ed è il fatto che l’universo in realtà è buio non c’è nessuna luce, le stelle non brillano, il sole non è luminoso, la luna non riflette i suoi raggi, tutto è nero, spaventosamente nero.”

Secondo la visione offerta dalla teoria dei sistemi possiamo definire il Cosmo come un Tutto, un sistema complesso formato a sua volta da tanti sottosistemi altrettanto complessi. Ogni sottosistema in sé riproduce il grande sistema per effetto dell’isomorfia sistemica ed è composto a sua volta di altri sottosistemi. L’isomorfia ci indica che il tutto è comprensibile attraverso l’osservazione delle sue parti e viceversa (von Bertalanffy, 1968). L’uomo dunque è uno di questi infiniti sottosistemi o parti che nasce dal sistema maggiore (il cosmo) e porta in sé tutte le sue caratteristiche: tra l’uomo e il cosmo si può dire che esiste una corrispondenza funzionale tra sistemi di ordine diverso.

Se apparteniamo al cosmo allora il buio cosmico è la condizione primordiale in cui nasciamo e che esiste ancora prima della condizione di buio a noi più familiare che è il grembo materno.

È come se l’evoluzione dell’essere umano si realizzasse in quattro tempi e fasi: la fase del cosmo; quella dell’utero; la fase del parto e dell’inizio della vita fuori dal grembo materno; la fase o fasi della rinascita.

La prima è la fase del cosmo. Siamo come pulviscolo immerso in un infinito fatto di particelle, protoni, energia, pianeti, stelle, galassie, polvere interstellare. In questa fase siamo nel buio cosmico e nel silenzio e siamo parte di un tutto che ci genera e al quale un giorno ritorneremo. Nasciamo dunque in queste due dimensioni e le portiamo dentro di noi come patrimonio. Una sorta di eredità cosmica lasciataci dal cosmo stesso dove abbiamo vissuto sotto forma di massa indifferenziata, la stessa che poi è diventata materia quando i nostri genitori, da un punto di questo infinito, hanno iniziato a sognarci. Il sogno da cui nasciamo ci apre le porte del grembo materno. Grazie a questo diventiamo progetto che si materializza nella forma di una cellula-uovo che, di lì a poco, si trasforma in un grappolo cellulare che raggiungerà l’utero diventando embrione e poi feto.

Ed ecco la seconda fase: il grembo materno. Durante questo tempo il nostro essere diventati materia è rappresentato da un corpo che assume sempre di più le sembianze di mamma e papà. Immersi nell’acqua e nel buio nascono i nostri organi, si sviluppano i nostri sensi, in primis il tatto e da ultimo la vista. L’utero che ci accoglie non è più silenzioso e impariamo a sentire e a conoscere.

Il primo senso che si sviluppa nel feto è il tatto. I primi recettori iniziano a svilupparsi dalla settima settimana gestazionale e dalla diciassettesima settimana ricoprono tutto il corpo; parallelamente, dalla sesta settimana, si formano le vie nervose che continuano il loro sviluppo fino alla trentesima settimana gestazionale. Il tatto segna i confini del proprio essere ed apre inevitabilmente all’incontro con l’altro che avviene attraverso le pareti dell’utero. Il secondo senso che si sviluppa è il gusto, dall’ottava settimana di gestazione appaiono le papille gustative che raggiungono la loro struttura definitiva intorno alla tredicesima settimana. Dopo tocca all’olfatto e poi all’udito. La struttura anatomica dell’orecchio inizia a formarsi dall’ottava settimana di gestazione, ma raggiunge la sua attivazione funzionale intorno alla trentesima settimana: il feto inizia a reagire agli stimoli uditivi da prima del settimo mese. I rumori percepiti in utero sono i più svariati: il suono che domina è il battito ritmico del cuore materno. La voce materna è il suono che riesce a stimolare maggiormente le emozioni del feto e viene percepita anche dall’interno, accompagnata dal sibilo del respiro. Il senso che si sviluppa per ultimo è la vista: è infatti la funzione sensoriale meno stimolata, sia perché la capacità visiva del feto si sviluppa lentamente, sia perché l’utero non è un ambiente luminoso. La struttura dell’occhio inizia a formarsi già a sette settimane, ma il feto apre le palpebre solo alla ventiseiesima settimana. Da questa sintetica descrizione dello sviluppo degli organi di senso nel feto si evince che la relazione inizia grazie al tatto e la conoscenza visiva arriva in una fase in cui il feto ha già acquisito una serie di informazioni importanti per la sua crescita al di fuori del grembo. Possiamo immaginare il corpo in evoluzione del feto come il luogo delle prime memorie relazionali, memorie di una storia vissuta ancora al buio. 

Perché? Perché la luce esiste solo se ci sono degli occhi e un cervello capaci di trasformare delle onde elettromagnetiche in segnali luminosi coma fa appunto il cervello umano.

Dopo nove mesi il nuovo passaggio alla terza fase della nascita, il parto, l’espulsione del bambino al di fuori dell’utero verso il mondo illuminato. Da questo momento in poi accade una cosa sorprendente, l’essere che ha vissuto gran parte della sua vita al buio, inizia a dimenticarsi di questa dimensione e a cercare la luce. L’uomo passa così una vita a cercare di illuminare anche quell’infinito buio da cui proviene grazie alle straordinarie potenzialità che possiede e man mano allena. Questi, dotato di raffinati organi di senso e di un cervello plastico, inizia ad illuminare il mondo e man mano che si illumina lo conosce, gli dà un senso e un nome. Che poi è in piccolo quello che succede all’individuo stesso che, una volta fuori dal corpo della madre, inizia, grazie ai sensi, alla mente e alle relazioni, a dare un nome alle cose e persone significative che incontra man mano che cresce. E così facendo dà un senso a sé stesso.

L’invito di Piero Angela a ricordarci che il cosmo è buio e silenzioso ci spinge a guardare oltre e a considerare la nostra quarta fase: la rinascita. Vivere la vita riprendendo il tema del buio e del silenzio cosmico insito dentro di noi significa mettersi alla ricerca del buio nel quale ritrovare l’essenza della nostra stessa esistenza e attraverso essa sperimentare l’autenticità. La psicoterapeuta napoletana e scrittrice Maria Serena Mastrangelo descrivendo l’autenticità scrive:

“…Ed è meraviglioso quando si comincia a sentire una continuità tra il dentro e il fuori, dà un  otevole senso di pace e di libertà…mi hanno fatto sperimentare quanto è illusorio e ridicolo sia ogni tentativo di separarsi dal tutto…Il confine ci fa dimenticare che apparteniamo all’universo e che siamo sempre in collegamento, quindi cercare la continuità del nostro essere è fondamentale” (Pensieri bonsai, p. 80-81, 2018).

Il nostro confine più evidente è quello corporeo, quello spazio che occupiamo nell’ambiente visibile, poi c’è un confine meno visibile dato dal mondo dei pensieri e infine il confine che meno conosciamo quello definito dal mondo delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti. Al di fuori di noi poi ci sono i confini dati dalle nostre case, le nostre città e man mano, i confini nazionali, continentali, terrenei. Ognuno di questi confini definisce chi siamo, quali valori e credenze portiamo in noi, quali abitudini e tradizioni seguiamo. Questi confini che fungono da elementi che ci caratterizzano e ci differenziano l’uno dall’altro diventano spesso prigioni nelle quali trascorriamo la nostra vita. Se riuscissimo ad acquisire la consapevolezza del confine universale pur mantenendo i nostri confini corporei, spirituali, quanti pensieri diversi potrebbero occupare la mente, quante emozioni potrebbero colorare le nostre giornate, quante azioni inedite i nostri corpi potrebbero realizzare. Conoscere sempre di più tutto questo in fondo equivale a riconoscere dentro di sé di appartenere ad un universo. Il confine dunque dato dalla luce rischia di farci dimenticare la nostra essenza, ritrovarla è fondamentale per poter vivere come autori delle nostre nuove storie presenti e future. Il segreto dell’autenticità delle storie che scriveremo sta nel ritrovare e risentire dentro di sè la continuità tra il cosmo buio e noi.

L’immagine che rappresenta tutta questa potenzialità è quella del cielo stellato. Come un grande specchio sulla nostra testa possiamo rifletterci nel buio del cosmo e ritrovare la nostra persona. Anche nel primo capitolo della Bibbia leggiamo “Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina.” (Gn. 1,27). Siamo dunque immagine di Dio, immagine dell’universo, siamo esseri straordinari. L’uomo dovrebbe esercitarsi a vivere nella consapevolezza di questa straordinarietà per tornare un giorno all’infinito degno del percorso fatto sulla terra.

Le onde elettromagnetiche di per sè non generano luce, tutto è buio nel cosmo e silenzioso, perché senza atmosfera non ci sono suoni. Si potrebbe dire che il cosmo si accende solo quando appare l’uomo che sa non soltanto vedere queste luci, ma interpretarle.”

Piero Angela conclude con la grande capacità dell’uomo di interpretare il mondo buio e, nell’atto in cui elabora la sua interpretazione, di dargli luce. La capacità interpretativa è la possibilità di dare un senso alla vita, questo illumina quello che stiamo cercando, lo stesso processo avviene quando si illumina una pensiero attraverso un’intuizione, un’emozione attraverso i sensi, un’immagine che appare come tirata fuori da uno scatolone.

Per interpretare si usa la mente non corporea, non archetipica, quella che non segue le leggi dell’universo, quella potremo dire tecnica che attiva le strutture cognitive che abbiamo sviluppato nel tempo. La mente corporea invece porta in sé la memoria delle origini e questa ci consente di illuminare il mondo di una luce nuova, più complessa.

Si comprende che la conoscenza massima si ottiene dall’integrazione di queste due parti della mente non corporea e di quella corporea, perché solo così l’uomo potrà illuminare il suo mondo e il cosmo sopra di lui di una luce inedita, propria, originale. Per poter interpretare e dunque conoscere l’uomo deve poter guardare il mondo dentro e fuori, deve avere uno sguardo capace di vedere la straordinarietà e la bellezza dell’essere, del vivere e dell’appartenere a quell’universo buio.

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Angela P., L’universo è buio, Super quark, 2018

Mastrangelo Maria Serena, Pensieri bonsai. L’utilità di piccole riflessioni quotidiane, Edizioni Del Faro, p. 80-81, 2018

von Bertalanffy L., Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppi, applicazioni, ILI, 1968.

La Buioterapia ai tempi del Coronavirus

Di Maria Esposito

In questo momento storico così difficile tutti abbiamo sperimentato la paura legata al vivere una condizione di reale pericolo per la propria salute e per quella delle persone care e vicine. La conseguente percezione di essere tutti a rischio ha trasformato il COVID19 in un mostro esterno capace di infettare ognuno di noi. La sua forza inarrestabile è stata quella di collegarsi con i nostri mostri interni facilitando l’emergere di disagi psichici, emotivi e fisici nuovi o sopiti. La caratteristica comune a queste forme di malessere è la trasformazione dell’ansia, che comunemente ci assale di fronte alle difficoltà, in ansia che ci crea malessere e ci immobilizza nelle nostre case.

Tutto il Mondo è stato travolto come da un unico e spaventoso blackout sanitario che però si è rivelato ben presto essere molto di più di una crisi sanitaria. Molti avevano preannunciato che l’azione irresponsabile dell’uomo nei confronti sia di sè stesso che dell’ambiente e l’incapacità di cooperare per il bene comune e per lo sviluppo della terra avrebbe portato ad una catastrofe, che Madre terra si sarebbe ribellata.

Ed è successo: il Mondo si è trovato immerso nel buio e ha chiuso gli occhi!

Quando si spengono all’improvviso le luci per istinto chiudiamo gli occhi, pur essendo al buio, per paura dell’oscurità che il buio rappresenta e per paura di quel disagio che ci assale dovuto al non sapersi più muovere e non poter più vedere con gli occhi. Il limite, percepito come tale conduce l’uomo a scegliere l’immobilità, una condizione nota, seppur carica di sofferenza. Stare bloccati in lockdown e non usare il blackout come un’opportunità di conoscenza e cambiamento. Qualcuno invece ha trasformato il limite in risorsa e di fronte al COVID19 ha scelto di porsi in ascolto della realtà nella speranza di riuscire a fluire con gli eventi, anche nel buio, senza perdersi, ha scelto cioè in maniera consapevole di Stare fermo. Scegliere di essere presenti e costruttivi alla storia e a sè stessi è stata la prima opportunità per ognuno di noi.

Ma cosa significa scegliere di essere presenti?

Il primo verbo Scegliere ci indica una condizione nella quale ci si trova quando la vita ci pone di fronte a due o più strade che potremo percorrere.  

Scegliere significa sentire il cuore che batte, lasciarsi ispirare da lui, significa aprire il proprio cuore e seguire la direzione che ci indica col suo battito.

L’altra affermazione Essere presenti si rifà ad una tecnica psicoterapeutica e meditativa, che richiede un esercizio costante per diventare capaci di guardare alla propria persona e agli accadimenti della vita e della storia come se fossimo portati in alto e acquisissimo una visione aerea del tutto. Da questa posizione la visuale è molto più complessa e offre la possibilità di intravedere i collegamenti, le distanze, i punti oscuri, gli sprechi di spazio. Immaginiamoci posti su di un’altura dalla quale possiamo scorgere la nostra vita in questo tempo di pandemia: cosa notiamo? Quali collegamenti sono presenti tra noi e gli altri? Quali sogni sono stati risucchiati dal virus lasciando il vuoto? Quanto spazio si è rubato la paura della morte?

L’opposto della visione aerea è osservare la stessa realtà dal di dentro. Il limite di questo è l’impossibilità di guardare oltre lo spazio ridotto che i nostri occhi possono raggiungere con la conseguente perdita di informazioni, collegamenti, emozioni che potrebbero aiutarci a vivere al meglio la stessa realtà.

Scegliere di essere presenti a sè stessi in questo tempo di crisi sanitaria significa dunque decidere di seguire con il cuore aperto e palpitante la strada che ci conduce all’acquisizione di una visione di noi e dell’altro più ampia e complessa. Significa anche rinunciare alla comodità di una vita ridotta, rintanata nel nostro piccolo giardino, che seppur a volte ci sembra non bastare, è per noi noto e rassicurante.

Ma scegliere passa necessariamente per un tempo buio, per una difficoltà dalla quale liberarsi, per un periodo di pandemia e richiede di fare i conti con l’attesa, con il tempo e con la propria capacità di essere perseveranti, determinati e rigorosi.

E allora come possiamo realizzare tutto ciò? Cosa potremo mettere in campo e come ci può sostenere la buioterapia per vivere questa pandemia non solo come un periodo oscuro, ma come l’occasione per creare qualcosa di nuovo per sé stessi, per gli altri e per l’ambiente che ci accoglie?

Questo stato di buio improvviso ci ha messi a dura prova rendendo evidente a tutti l’incapacità di vivere senza le proprie certezze, le acquisite conoscenze e i propri ampi spazi di azione. Perchè il buio può essere ascoltato, visto, vissuto se non fosse che la nostra cultura ci ha educato a considerarlo pari alle tenebre, all’oscurità, all’inferno a qualcosa che potrebbe arrecarci dolore. La novità che viene dalle riflessioni di autori vari e dalla teorizzazione della Buioterapia è la visione del buio come condizione nella quale la persona, non solo può riequilibrarsi e rigenerarsi, ma può anche realizzare un viaggio di conoscenza profonda di sè e della propria appartenenza alla storia. Al buio il cuore può tornare a battere e può aprirsi all’incontro con l’altro da sè. Al buio è possibile stare con gli occhi aperti per vedere e accogliere quello che questi crea. Ma per aprire gli occhi e non farsi assalire dall’angoscia bisogna esercitarsi a porre ascolto al proprio cuore e ai propri reali desideri.

Noi non sappiamo ascoltare il buio perché alla luce tutto ha un suono diverso e soprattutto noto. Per ascoltarlo dovremo imparare a fare spazio all’incertezza di non capire tutto e subito, e alla possibilità di acquisire nuova conoscenza che presuppone rinunciare al nostro strutturato e faticato bagaglio di competenze e conoscenze. Per realizzare ciò dovremo sentire la fiducia in noi stessi e nella nostra capacità di resistere pur non comprendendo, e nell’altro che, seppur diverso, non necessariamente è un nemico.

Non sappiamo vedere il buio, perché ci fa paura, come i bambini che non riescono a dormire senza una piccola luce accesa. Per vedere il buio dovremo acquisire la capacità di meditare sulla vita, sui suoi accadimenti più o meno prevedibili, sulle nostre emozioni, sulle nostre responsabilità e sul nostro essere potenziali generatori d’amore e di energia vitale. Per raggiungere questo dovremo sentire in noi il coraggio di aprire gli occhi al buio e lasciarsi penetrare da esso per creare quello spazio vuoto in noi dove far germogliare il nuovo.

Non sappiamo orientarci al buio perchè perdiamo i nostri conosciuti riferimenti. Stare al buio significa porre un’attenzione al proprio corpo che, grazie ai sensi può, in tale condizione, ritrovare una strada, ma non sempre ascoltiamo il nostro corpo se non nei momenti di sofferenza di una parte di esso.

La Buioterapia si pone come una risposta a questo malessere dilagante. Un percorso con la buioterapia ha il grande valore di diventare, per le sue peculiarità, una sorta di palestra dove allenare la nostra capacità di scegliere di stare al buio e di starci con gli occhi aperti con altri compagni di viaggio o da soli, per mettersi alla ricerca di nuovi e più interessanti equilibri.

Un percorso di evoluzione del sè come questo presuppone il restare al buio in maniera ripetuta per esplorare insieme il proprio mondo interno. E mira a promuovere il coraggio di stare al buio, la fiducia nei propri compagni di viaggio e la fiducia in sè stesso e nella possibilità di lasciarsi riempire dal buio, nonchè una percezione più ricca del proprio corpo che al buio perde i propri confini e ne acquisisce di altri. Accompagnati da buio, parole e musica si potranno ri-vedere – al buio – le proprie relazioni, ri-visitare le proprie emozioni antiche e nuove, legate all’ansia, incontrare i propri nemici interiori e affrontarli, ri-pensare e ri-sentire il proprio corpo e il suo stare nello spazio con l’obiettivo di ri-creare quella connessione mente-corpo rendendo il proprio vivere più fluido e soprattutto più creativo. Laddove la creatività è la capacità di rinnovarsi e di sperimentare nuovi modi di essere, di pensare, di agire e di sentire. Il tutto in una condizione, il buio, che per le sue caratteristiche permette di sperimentare questa opera di cambiamento e rende possibile Scegliere in maniera consapevole e responsabile di stare nel proprio mondo con un atteggiamento di presenza a sé e all’altro tale che possiamo osservare le nostre difficoltà e i nostri limiti interiori, comprenderli e magari imparare ad amarli senza giudicarli.