La Storia del Puntino
La storia del Puntino
di edo e Maria
C’era una volta uno stregone, innamorato di una bella Principessa, chiese di poterla sposare. Alla richiesta dello stregone, la bella Principessa disse:
“Se tu troverai parole tanto dolci da persuadere il mio cuore, io ti amerò per sempre”.
Lo stregone le provò tutte, mise insieme le parole più dolci del mondo, le più tenere e amorose che conosceva, ma aveva un cuore arido e crudele e per questo non riuscì a persuadere la bella principessa e cosi lei lo rifiutò.
Lo stregone, adirato e offeso da tale rifiuto, fece un terribile incantesimo:
“Che tutte le parole d’amore del mondo siano distrutte e nessuno ne abbia più memoria!”
Poi rivolto alla Principessa disse:
“Ti condanno a vivere in un mondo di silenzio, le tue orecchie non udranno più nulla! Solo chi innalzerà al cielo le parole più dolci e tenere che io non seppi dire, ti libererà dall’incantesimo!”
In quello stesso momento tutti gli uomini dimenticarono le parole d’amore e quelle stesse parole scomparvero da tutti i libri della terra, gli amanti rimasero muti ed i poeti senza versi.
La Principessa rimase sorda, isolata dal mondo, senza poter udire alcuna parola ed il mondo rimase senza parole d’amore.
Ma da qualche parte, in qualche luogo, un Musicista, innamorato segretamente della Principessa, stava scrivendo l’ultima parola della sua canzone d’amore a lei dedicata, proprio quando avvenne l’incantesimo, e fu lì, proprio in quel momento, che successe qualcosa di straordinario: il Punto che concludeva la canzone scampò all’incantesimo salvato dal troppo amore del musicista.
Così, quel piccolissimo Puntino si salvò e ricordava perfettamente tutte le parole della canzone da cui proveniva.
Esiste un luogo misterioso dove abitano tutte le parole del mondo ed in ognuno di noi c’è una porticina nella nostra testa, dove quelle parole entrano. In quel meraviglioso mondo abitato da parole c’era un’antica foresta, la foresta delle parole d’amore. Nel cuore della foresta c’era un castello imponente le cui mura erano bianche come l’avorio e le torri alte come montagne.
Tutto fu distrutto dall’incantesimo; lettere smarrite vagavano tra gli alberi non ricordando più le parole da cui provenivano; tutte le parole d’amore del mondo, sparpagliate in migliaia di lettere senza memoria.
Quel Puntino si ritrovò cosi a vagare nella foresta tra le lettere smarrite, e decise che avrebbe ritrovato tutte le lettere di tutte le parole della canzone e le avrebbe messe insieme una dopo l’altra, avrebbe aperto la porticina che portava alla testa del Musicista innamorato della Principessa e l’incantesimo sarebbe stato sciolto.
Il Puntino continuò a camminare, incontrò lettere maiuscole e minuscole, vocali e consonanti, le acca mute e quelle aspirate, ma nessuno gli dette retta.
Con grande enfasi diceva alle lettere che incontrava che lui avrebbe potuto salvare la Principessa, che lui sapeva come fare!
Ma le lettere, infastidite, non gli davano neanche il tempo di parlare e gli rispondevano che lui era soltanto un puntino: come può un puntino saperne di parole d’amore!
Giunse senza neanche accorgersi alla porta del castello dove abitava il Re delle parole d’amore.
Quando le parole d’amore esistevano ancora, il Re sceglieva le parole giuste da far passare dalla porticina che conduceva ai pensieri degli uomini.
Il Puntino vide tutte le lettere in fila davanti al portone del castello, una fila interminabile. Tutte in attesa che il Re ricordasse almeno una parola d’amore.
Il Puntino decise di percorrere rotolando tutta la fila, nessuno lo avrebbe notato piccolo come era, ed arrivò vicinissimo all’enorme porta del castello e fu lì che vide una Nota musicale.
Pensò: Che ci fa una Nota musicale nel mondo delle parole d’amore?
E si accorse che quella Nota, piangeva!
“Perché piangi?”
Le chiese.
“Cosa vuoi saperne tu?”
disse la Nota
“Ti direi cose a cui non crederesti, ma voglio rivelarti un segreto: io so come liberare la Principessa dall’incantesimo, ma da sola non posso e nessuno mi crede!”
Il Puntino la guardò con attenzione e disse
“Io! Io ti credo, ed il mio cuore mi ha condotto a te.”
continuò
“Anche io so come scogliere l’incantesimo, io sono l’unico che ricorda le parole d’amore perché mi sono salvato dall’oblio dell’incantesimo!“
La Nota musicale fu come svegliata da un torpore, si tirò su e disse:
“Allora tu sei quel Puntino che chiudeva la canzone!!! Ti ho cercato dappertutto, ecco perché sono qui, io sono l’ultima nota della canzone, ed ero legato a te fino a quando l’incantesimo non ci ha separati!!
La Nota musicale si asciugò le lacrime e sorrise, come solo una nota che trova la parola che gli mancava da sempre può sorridere, ed anche se davanti a sé vedeva un Puntino e non una parola, sorrise ugualmente, perché le avevano insegnato che il cuore, riesce a guardare oltre quello che gli occhi riescono a vedere!
La Nota disse al Puntino:
“So come convincere le lettere a starti ad ascoltare, dobbiamo andare al castello e convincere il Re”.
Quello stesso giorno il Puntino e la Nota musicale riuscirono ad entrare al castello, nessuno si accorse di loro.
Il Re era disperato!
Aveva perso tutto il suo regno di meravigliose parole e dal giorno dell’incantesimo non faceva altro che chiamare al suo cospetto le lettere e provava a formare parole creando sequenze casuali con l’augurio di poter formare qualche verso d’amore, fosse solo una parola e le faceva passare attraverso la porticina che portava ai pensieri degli uomini.
Ma nessun poeta, nessun musicista riusciva a pronunciarle perché prive di qualsiasi significato.
Il Puntino e la Nota musicale rimasero per un po’ di tempo nascosti non sapendo ancora bene cosa fare.
Improvvisamente il Puntino tirò un forte respiro e rotolò, tirando con sé anche la Nota fino ai piedi del Re.
Quando il Re li vide aprì i suoi profondi occhi e si abbassò fino a terra, voleva capire se era proprio un punto quello che i suoi occhi stavano guardando.
Ora il Puntino era a un palmo dal suo naso e un po’ tremante disse con voce esile:
“Signor Re io sono un Puntino e sono giunto da voi per dirvi che io so come liberare le parole d’amore dall’incantesimo malvagio…in verità, Signor Re, non sono io che posso liberarla o, almeno non da solo…conosco una Nota musicale che possiede come me il segreto…se riuscirà a credere a quello che dico, l’incantesimo svanirà!
Il Puntino aveva detto tutte le parole, quasi tutte di un fiato e il silenzio piombò su di loro.
Il Puntino era sotto il naso del Re quando, all’improvviso, la Nota musicale, si lasciò risuonare, dolcissima, come dolce è l’ultima nota di un canto d’amore.
Il Re udì quella Nota e vide risplendere in quel minuscolo punto, tutto l’amore strappato al mondo.
Il Puntino e la Nota musicale si guardarono, e si sorrisero,
Gli occhi del Re si riempirono di lacrime, e disse:
”Puntino dimmi ciò che c’è da fare ed io lo farò.”
Fu cosi che dalla torre più alta del castello il Re comincio a richiamare le lettere, una ad una, nella sequenza esatta cosi come il puntino gli suggeriva. Nello stesso momento la Nota musicale aveva richiamato tutte le note della canzone che prendevano sottobraccio le lettere ed entravano insieme al castello.
Le note risuonavano l’una dopo l’altra in una melodia meravigliosa e dolcissima, e finalmente le lettere si univano a formare parole d’amore. Ogni nota aveva ritrovato la propria lettera ed ogni lettera la propria compagna.
Il Re apri la porticina che conduceva ai pensieri del Musicista il quale si ritrovò a scrivere nuovamente tutte le parole dimenticate e la melodia che non aveva più parole, ora fu compiuta.
Il Puntino e la Nota musicale furono gli ultimi ad attraversare la porticina in un tripudio di saluti e festeggiamenti.
Il Musicista corse con il suo violino dalla Principessa e cantò e suonò il suo amore per lei e la Principessa, che fino ad allora non aveva più udito nulla, fu pervasa da quel fluire di musica e parole che le sciolsero l’udito ed il cuore.
Fu così che il mondo si riempì di nuovo di parole d’amore, i poeti ricominciarono a scrivere e gli amanti a sussurrarsi silenziosamente parole dolcissime.
FINE
L’universo è buio
“C’è una cosa strana e sconcertante che riguarda il rapporto dell’uomo con il cosmo e che non viene mai detta, ed è il fatto che l’universo in realtà è buio non c’è nessuna luce, le stelle non brillano, il sole non è luminoso, la luna non riflette i suoi raggi, tutto è nero, spaventosamente nero. Perché? Perché la luce esiste solo se ci sono degli occhi e un cervello capaci di trasformare delle onde elettromagnetiche in segnali luminosi coma fa appunto il cervello umano. Le onde elettromagnetiche di per sè non generano luce, tutto è buio nel cosmo e silenzioso, perché senza atmosfera non ci sono suoni. Si potrebbe dire che il cosmo si accende solo quando appare l’uomo che sa non soltanto vedere queste luci, ma interpretarle.”
Super Quark di Piero Angela
Quando scienza e arte si incontrano e diventano un’unica cosa quello che nasce assume le sembianze di qualcosa di divino. Piero Angela in questo poetico stralcio di un servizio di Super Quark ci ha fatto intravedere questa dimensione divina attraverso una sintetica, quanto efficace descrizione del rapporto dell’uomo con il cosmo, del buio di cui siamo circondati, delle onde elettromagnetiche e del cervello che le traduce, ma soprattutto ci ha parlato della capacità dell’essere umano di dare vita alla luce e quindi al buio grazie alla funzione interpretativa.
Come per ogni poesia è possibile tradurre questa citazione in un linguaggio più descrittivo che ci aiuti a riflettere circa l’importanza del rapporto tra l’uomo e il cosmo buio e silenzioso e di come riconnettersi con questo rapporto originario renda l’uomo autentico e, dunque sempre più vicino a sé stesso.
“C’è una cosa strana e sconcertante che riguarda il rapporto dell’uomo con il cosmo e che non viene mai detta, ed è il fatto che l’universo in realtà è buio non c’è nessuna luce, le stelle non brillano, il sole non è luminoso, la luna non riflette i suoi raggi, tutto è nero, spaventosamente nero.”
Secondo la visione offerta dalla teoria dei sistemi possiamo definire il Cosmo come un Tutto, un sistema complesso formato a sua volta da tanti sottosistemi altrettanto complessi. Ogni sottosistema in sé riproduce il grande sistema per effetto dell’isomorfia sistemica ed è composto a sua volta di altri sottosistemi. L’isomorfia ci indica che il tutto è comprensibile attraverso l’osservazione delle sue parti e viceversa (von Bertalanffy, 1968). L’uomo dunque è uno di questi infiniti sottosistemi o parti che nasce dal sistema maggiore (il cosmo) e porta in sé tutte le sue caratteristiche: tra l’uomo e il cosmo si può dire che esiste una corrispondenza funzionale tra sistemi di ordine diverso.
Se apparteniamo al cosmo allora il buio cosmico è la condizione primordiale in cui nasciamo e che esiste ancora prima della condizione di buio a noi più familiare che è il grembo materno.
È come se l’evoluzione dell’essere umano si realizzasse in quattro tempi e fasi: la fase del cosmo; quella dell’utero; la fase del parto e dell’inizio della vita fuori dal grembo materno; la fase o fasi della rinascita.
La prima è la fase del cosmo. Siamo come pulviscolo immerso in un infinito fatto di particelle, protoni, energia, pianeti, stelle, galassie, polvere interstellare. In questa fase siamo nel buio cosmico e nel silenzio e siamo parte di un tutto che ci genera e al quale un giorno ritorneremo. Nasciamo dunque in queste due dimensioni e le portiamo dentro di noi come patrimonio. Una sorta di eredità cosmica lasciataci dal cosmo stesso dove abbiamo vissuto sotto forma di massa indifferenziata, la stessa che poi è diventata materia quando i nostri genitori, da un punto di questo infinito, hanno iniziato a sognarci. Il sogno da cui nasciamo ci apre le porte del grembo materno. Grazie a questo diventiamo progetto che si materializza nella forma di una cellula-uovo che, di lì a poco, si trasforma in un grappolo cellulare che raggiungerà l’utero diventando embrione e poi feto.
Ed ecco la seconda fase: il grembo materno. Durante questo tempo il nostro essere diventati materia è rappresentato da un corpo che assume sempre di più le sembianze di mamma e papà. Immersi nell’acqua e nel buio nascono i nostri organi, si sviluppano i nostri sensi, in primis il tatto e da ultimo la vista. L’utero che ci accoglie non è più silenzioso e impariamo a sentire e a conoscere.
Il primo senso che si sviluppa nel feto è il tatto. I primi recettori iniziano a svilupparsi dalla settima settimana gestazionale e dalla diciassettesima settimana ricoprono tutto il corpo; parallelamente, dalla sesta settimana, si formano le vie nervose che continuano il loro sviluppo fino alla trentesima settimana gestazionale. Il tatto segna i confini del proprio essere ed apre inevitabilmente all’incontro con l’altro che avviene attraverso le pareti dell’utero. Il secondo senso che si sviluppa è il gusto, dall’ottava settimana di gestazione appaiono le papille gustative che raggiungono la loro struttura definitiva intorno alla tredicesima settimana. Dopo tocca all’olfatto e poi all’udito. La struttura anatomica dell’orecchio inizia a formarsi dall’ottava settimana di gestazione, ma raggiunge la sua attivazione funzionale intorno alla trentesima settimana: il feto inizia a reagire agli stimoli uditivi da prima del settimo mese. I rumori percepiti in utero sono i più svariati: il suono che domina è il battito ritmico del cuore materno. La voce materna è il suono che riesce a stimolare maggiormente le emozioni del feto e viene percepita anche dall’interno, accompagnata dal sibilo del respiro. Il senso che si sviluppa per ultimo è la vista: è infatti la funzione sensoriale meno stimolata, sia perché la capacità visiva del feto si sviluppa lentamente, sia perché l’utero non è un ambiente luminoso. La struttura dell’occhio inizia a formarsi già a sette settimane, ma il feto apre le palpebre solo alla ventiseiesima settimana. Da questa sintetica descrizione dello sviluppo degli organi di senso nel feto si evince che la relazione inizia grazie al tatto e la conoscenza visiva arriva in una fase in cui il feto ha già acquisito una serie di informazioni importanti per la sua crescita al di fuori del grembo. Possiamo immaginare il corpo in evoluzione del feto come il luogo delle prime memorie relazionali, memorie di una storia vissuta ancora al buio.
Perché? Perché la luce esiste solo se ci sono degli occhi e un cervello capaci di trasformare delle onde elettromagnetiche in segnali luminosi coma fa appunto il cervello umano.
Dopo nove mesi il nuovo passaggio alla terza fase della nascita, il parto, l’espulsione del bambino al di fuori dell’utero verso il mondo illuminato. Da questo momento in poi accade una cosa sorprendente, l’essere che ha vissuto gran parte della sua vita al buio, inizia a dimenticarsi di questa dimensione e a cercare la luce. L’uomo passa così una vita a cercare di illuminare anche quell’infinito buio da cui proviene grazie alle straordinarie potenzialità che possiede e man mano allena. Questi, dotato di raffinati organi di senso e di un cervello plastico, inizia ad illuminare il mondo e man mano che si illumina lo conosce, gli dà un senso e un nome. Che poi è in piccolo quello che succede all’individuo stesso che, una volta fuori dal corpo della madre, inizia, grazie ai sensi, alla mente e alle relazioni, a dare un nome alle cose e persone significative che incontra man mano che cresce. E così facendo dà un senso a sé stesso.
L’invito di Piero Angela a ricordarci che il cosmo è buio e silenzioso ci spinge a guardare oltre e a considerare la nostra quarta fase: la rinascita. Vivere la vita riprendendo il tema del buio e del silenzio cosmico insito dentro di noi significa mettersi alla ricerca del buio nel quale ritrovare l’essenza della nostra stessa esistenza e attraverso essa sperimentare l’autenticità. La psicoterapeuta napoletana e scrittrice Maria Serena Mastrangelo descrivendo l’autenticità scrive:
“…Ed è meraviglioso quando si comincia a sentire una continuità tra il dentro e il fuori, dà un otevole senso di pace e di libertà…mi hanno fatto sperimentare quanto è illusorio e ridicolo sia ogni tentativo di separarsi dal tutto…Il confine ci fa dimenticare che apparteniamo all’universo e che siamo sempre in collegamento, quindi cercare la continuità del nostro essere è fondamentale” (Pensieri bonsai, p. 80-81, 2018).
Il nostro confine più evidente è quello corporeo, quello spazio che occupiamo nell’ambiente visibile, poi c’è un confine meno visibile dato dal mondo dei pensieri e infine il confine che meno conosciamo quello definito dal mondo delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti. Al di fuori di noi poi ci sono i confini dati dalle nostre case, le nostre città e man mano, i confini nazionali, continentali, terrenei. Ognuno di questi confini definisce chi siamo, quali valori e credenze portiamo in noi, quali abitudini e tradizioni seguiamo. Questi confini che fungono da elementi che ci caratterizzano e ci differenziano l’uno dall’altro diventano spesso prigioni nelle quali trascorriamo la nostra vita. Se riuscissimo ad acquisire la consapevolezza del confine universale pur mantenendo i nostri confini corporei, spirituali, quanti pensieri diversi potrebbero occupare la mente, quante emozioni potrebbero colorare le nostre giornate, quante azioni inedite i nostri corpi potrebbero realizzare. Conoscere sempre di più tutto questo in fondo equivale a riconoscere dentro di sé di appartenere ad un universo. Il confine dunque dato dalla luce rischia di farci dimenticare la nostra essenza, ritrovarla è fondamentale per poter vivere come autori delle nostre nuove storie presenti e future. Il segreto dell’autenticità delle storie che scriveremo sta nel ritrovare e risentire dentro di sè la continuità tra il cosmo buio e noi.
L’immagine che rappresenta tutta questa potenzialità è quella del cielo stellato. Come un grande specchio sulla nostra testa possiamo rifletterci nel buio del cosmo e ritrovare la nostra persona. Anche nel primo capitolo della Bibbia leggiamo “Dio creò l’uomo a sua immagine; lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina.” (Gn. 1,27). Siamo dunque immagine di Dio, immagine dell’universo, siamo esseri straordinari. L’uomo dovrebbe esercitarsi a vivere nella consapevolezza di questa straordinarietà per tornare un giorno all’infinito degno del percorso fatto sulla terra.
Le onde elettromagnetiche di per sè non generano luce, tutto è buio nel cosmo e silenzioso, perché senza atmosfera non ci sono suoni. Si potrebbe dire che il cosmo si accende solo quando appare l’uomo che sa non soltanto vedere queste luci, ma interpretarle.”
Piero Angela conclude con la grande capacità dell’uomo di interpretare il mondo buio e, nell’atto in cui elabora la sua interpretazione, di dargli luce. La capacità interpretativa è la possibilità di dare un senso alla vita, questo illumina quello che stiamo cercando, lo stesso processo avviene quando si illumina una pensiero attraverso un’intuizione, un’emozione attraverso i sensi, un’immagine che appare come tirata fuori da uno scatolone.
Per interpretare si usa la mente non corporea, non archetipica, quella che non segue le leggi dell’universo, quella potremo dire tecnica che attiva le strutture cognitive che abbiamo sviluppato nel tempo. La mente corporea invece porta in sé la memoria delle origini e questa ci consente di illuminare il mondo di una luce nuova, più complessa.
Si comprende che la conoscenza massima si ottiene dall’integrazione di queste due parti della mente non corporea e di quella corporea, perché solo così l’uomo potrà illuminare il suo mondo e il cosmo sopra di lui di una luce inedita, propria, originale. Per poter interpretare e dunque conoscere l’uomo deve poter guardare il mondo dentro e fuori, deve avere uno sguardo capace di vedere la straordinarietà e la bellezza dell’essere, del vivere e dell’appartenere a quell’universo buio.
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Angela P., L’universo è buio, Super quark, 2018
Mastrangelo Maria Serena, Pensieri bonsai. L’utilità di piccole riflessioni quotidiane, Edizioni Del Faro, p. 80-81, 2018
von Bertalanffy L., Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppi, applicazioni, ILI, 1968.